Cnosso - Canea - henrymilleringrecia

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Ho cercato di entrare a Cnosso dall'entrata posteriore. Nel mio entusiasmo ho oltrepassato l'ingresso ufficiale. Dopo la curva ho scorto la grande colonna rossa, la colonna restaurata. Era proprio il momento giusto, perché, mentre raggiungevo la svolta, stavo dicendo a me stesso: “Dovrebbe essere qui, questo è il luogo adatto”. Sento che posso mettermi a visitare tutti i luoghi sacri della terra senza guida né bussola. Ogni luogo ha la sua divinità che ti chiama con un cenno mentre ti avvicini. In questi luoghi la terra è insolitamente quieta – una passività dinamica, vitale come i fluidi elettrici del cosmo.
 
E' impensabile e assolutamente impossibile che questi luoghi sacri subiscano un giorno l'influenza del progresso. In questa atmosfera nessuna macchina potrebbe sopravvivere. Qui governa in modo tirannico lo spirito del luogo, padrone supremo del passato, del presente e del futuro. Quello che lo spirito umano ha realizzato in questi pochi nuclei di caos rimane imperituro. La vita gira vorticosamente attorno a queste rocce eterne, a questi appigli silenziosi della terra. Spesso, quando osservavo le vestigia nei musei mi veniva in mente che l'uomo, in realtà, saccheggiando le tombe, contribuisce a propiziare la presenza della santità. E' un bene rimuovere ogni manifestazione materiale. Un giorno tutti i musei periranno, insieme alle vestigia delle conquiste umane del passato. Ma l'uomo, volente o nolente, sarà attratto verso i luoghi dove lo spirito si libra in eterno, per riscoprirne il retaggio.
 
Il meraviglioso valore terapeutico del ritmo lento della vita si sente in modo particolare nel palazzo di Cnosso, così solidamente arroccato. Vi si percepisce come un tempo tutto fosse fatto senza fretta. Gli stessi lineamenti della razza – ma di che razza si tratta? - sono un segno rivelatore di quel ritmo lento, dignitoso. Il grande trono di Minosse parla da solo di volumi. Non ci si sedeva come si fa oggi su una sedia. Vi si distendeva maestosamente il corpo per creare un contatto magico con la terra. Il trono affondava in profondità nelle viscere del sottosuolo. Era un sito di giustizia, dove tutto era accuratamente pesato e deliberato. Nella leggenda si pensa a Minosse come a un mostro che esigeva tributi. Ma il sedile rivela come egli fosse un grande legislatore, che dispensava giustizia e saggezza. Rappresentava l'arte, la pace, l'operosità, la gioia, il benessere. La gioia! Questa è la qualità emanata da Cnosso, malgrado le sue tristi rovine.

E ancora oggi sui visi dei cretesi c'è una luce che non ho mai visto altrove. Il loro sguardo è pieno, splendente, senza paura o malizia. Nei cretesi non c'è meschinità d'animo. Ti guardano da sotto il turbante nero con gli occhi dei pagani di un tempo. Uno sguardo luminoso e onesto, che non è stato offuscato da secoli di sofferenze e di privazioni. A parte i berberi, gli arabi e certe tribù dell'India, i cretesi hanno l'espressione più bella che io abbia mai visto. Nei loro visi non c'è solo carattere e lignaggio, ma dignità, una qualità ormai estinta nell'uomo.
 
A bordo del Frinton, la barca che lo scorso luglio mi ha portato da Atene a Corfù – il mio primo viaggio. E' come vedere dei vecchi amici. Lo stesso equipaggio, gli stessi camerieri, lo stesso maître d'hotel. Aspetto da tre ore il riso bollito che ho ordinato quando sono salito a bordo – per scoprire alla fine che non hanno riso. Tipicamente greco: non dicono mai di no! Andando contro gli ordini del farmacista, ordino una cena completa. Diarrea o non diarrea, voglio mangiare. Nel salone al piano superiore si suona musica swing – dischi da Atene. La mia testa è piena di Nijinsky, balletto russo, Montecarlo, Vienna, Budapest, Londra. Ho quasi dimenticato dove siamo. Creta sembra lontana nel tempo. Ricordo le piacevoli occhiate che avevo lanciato in giro mentre facevo lucidare le scarpe. Negli ultimi istanti prima della partenza gli occhi lavorano febbrilmente, divorano tutto come un uomo affamato. La domanda è sempre la stessa – si tornerà?
 
Quando sto per partire arriva la richiesta di Monsieur le Préfet di andarlo a trovare in ufficio. Ci vado con Alexion e Kafatos, l'esperto di agricoltura. Sembra che il Prefetto – Kyrios Stavros Tsoussis – mi abbia cercato sin dal mio arrivo. Voleva mettere a mia disposizione la sua auto aerodinamica, presenziare a un banchetto in mio onore, farmi sapere quanto fosse contento di vedere uno straniero proveniente da un paese libero.
 
Stavros Tsoussis è un individuo straordinario, una figura del Rinascimento. Che cosa ci faccia a Candia non arrivo a capirlo. Ha tutte le qualità di un dittatore intelligente e capace, è un uomo d'azione, perspicace, risoluto, attento, efficiente, quasi americano nel suo dinamismo. E' la prima volta che la polizia mi cerca per rendermi omaggio. Glielo dico. Parliamo di Festo, del carattere 'pacifico' dell'epoca minoica. Lo lascio con la sensazione di essere stato in presenza di un uomo che un giorno sarà famoso, un uomo di potere. E' stata la più grande sorpresa da quando sono arrivato in Grecia. Fuori dal suo ufficio, c'è una piccola monella scalza e coperta di stracci che sta bighellonando. Non sembra intimidita dalla presenza dell'autorità di polizia. Non ho mai visto una scena simile in altre città. Mi fa venire in mente l'Académie Pédagogique di Candia. Dato che non trovo Alexion, chiedo il permesso di visitare la scuola. Ispeziono una stanza dopo l'altra, la cucina, il laboratorio di agricoltura, nel cortile posteriore. Come descriverei questo luogo? Umano. Pieno di calore e di umanità, come se gli insegnanti e gli allievi fossero amici e parenti.

Nell'aula di musica cantano per me – quaranta o cinquanta voci basse e vigorose – musica religiosa bizantina. Getto un'occhiata veloce allo spartito, è il più strano che abbia mai visto. Ogni cosa è fatta con grande entusiasmo, con gusto. Mi mostrano l'apparecchiatura scientifica – per la fisica e la chimica. Deplorano la mancanza di attrezzature, parlano di un edificio nuovo. Al diavolo l'edificio nuovo! “Conservare il vecchio spirito!” dico! La Grecia non ha bisogno di edifici nuovi, di attrezzature nuove. Essa sta facendo miracoli con lo stretto necessario. Perché competere con le nazioni ricche? Perché entrare in gara schiacciati da simili handicap? Percorro le strade tortuose, sbirciando nei grandi cortili. E' molto simile a Madeira. Ne sono sicuro, anche se non sono mai stato a Madeira.

Mi fermo in un negozio a comprare delle cartoline. Alcune sono rovinate a causa della lunga permanenza in negozio. L'uomo mi lascia in compagnia della moglie e corre a casa con le cartoline per pulirle (sic!). Sua moglie è francese, della Normandia. Mi parla della Francia. Le manca il verde della Normandia, le mucche, i pascoli fertili. Ha un'espressione cupa, gli occhi spenti, quell'intollerabile modo francese di ridurre tutto a logica e realismo. Comincio a contraddirla. Io sono estasiato dalle montagne brulle, dalla polvere, dalle rocce, dal sole ardente. Mi guarda come se fossi matto. Sì, mia cara signora, io amo la Grecia proprio perché è la Grecia e non la Francia. Quello che amo è la sua grecità. Pazzesco, vero? Tenetevi pure i vostri giardini alla francese, i muri attorno alle case, i cauti rifiuti, i modi congiuntivi, la logica, i sous. Quello che la Grecia ha di buono è che è illogica, paradossale, contradditoria. Ma non è mai 'scialba', non è mai 'cupa'. Persino gli occhi artificiali esposti nelle farmacie sono interessanti. Occhi mostruosi, da Ciclopi...

Serata a casa di Kyrios Elliadi. Durante la cena arriva il presidente dell'associazione dei sarti di Candia. “Non alzarti – dice Elliadi – è solo il mio sarto”. Dopo pochi minuti arriva un altro visitatore, presidente di un'altra associazione. “Da dove viene, signore?” mi chiede. Segue una conversazione completamente surreale, in cui parliamo dell'arte della sartoria, della guerra, dell'espulsione dei greci dall'Asia Minore, delle statue lungo Riverside Drive, a New York, della questione ebraica, del costo della vita per una famiglia di quattro persone, del mercato azionario di Wall Street e così via.
 
Elliadi, vice console britannico di Candia, è un rifugiato proveniente da Smirne. E' venuto da me la sera del mio arrivo, mentre sedevo al ristorante da solo, e mi ha chiesto se ero il signor Miller. Mi ha detto di voler mettere a mia disposizione i suoi servizi, aggiungendo: “Specie perché siete americano!”. Poi ha raccontato quello che, da allora in poi, ho sentito ripetere spesso, la storia dell'aiuto disinteressato degli americani ai greci espulsi dall'Asia Minore. Aveva giurato solennemente di non dimenticare mai la loro gentilezza. Naturalmente ero commosso. In diverse occasioni ho espresso disaprovvazione nei confronti dei miei compatrioti, ma è fuori discussione che siano gentili e prodighi senza altro motivo all'infuori dell'umana simpatia. Mentre ascoltavo il racconto e le fervide lodi dell'America da parte dei greci che avevano lavorato nelle miniere dell'Arizona, del Montana, dell'Alaska, nei boschi ad abbattere gli alberi per il legname da costruzione, nelle fattorie, nelle acciaierie, nelle fabbriche di automobili, la storia degli uomini che avevano gestito bancarelle di frutta o piccoli ristoranti, dei fioristi di Washington Heights o Cathedral Parkway, cominciavo a chiedermi se non avessi torto sul mio paese.

E nei momenti di solitudine, quando le barriere della razza e della lingua mi isolano da chi mi sta intorno, spesso mi viene in mente che, anche se in modo estremamente limitato, ho il privilegio di sperimentare le emozioni degli immigrati che sono venuti in America per farne la loro casa, il vantaggio di conoscere un pallido riflesso delle loro lotte, del loro bisogno di cameratismo, di un po' di simpatia umana. Provo a pensare a che cosa sarebbe la mia vita se fossi obbligato a restare in un paese straniero a guadagnarmi la vita, a impararne la lingua, ad adattarmi al modo di vivere locale. I pochi americani che hanno cambiato nazionalità lo hanno fatto per ragioni ben diverse degli immigrati che accogliamo. Per noi è un lusso, un capriccio stravagante a cui ci dilettiamo di indulgere. Non è mai stato un atto dettato dalla necessità, dallo scoraggiamento o dalla disperazione. Un americano rimane tale per la vita. Lafcadio Hearn è diventato giapponese, ma era nato da un greco e un'irlandese ed era un poeta, un sognatore, un visionario.
 
Tuttavia, saluti al signor Elliadi, vice console britannico proveniente da Smirne! E grazie per il libro che mi ha dato. Io sono un americano che non dimenticherà mai la Grecia e i greci. Ho un debole per loro. Specialmente per le creature miserabili, disperate, senza scarpe, vestite di stracci, che vivono grazie al sole, all'aria nutriente, alla vitalità delle radici della razza. Rabbrividisco al pensiero di che cosa diventerebbe quest'orda di mendicanti senza nome se il clima cambiasse. Morirebbero come mosche. In nessun altro luogo ho visto una tale miseria e una tale forza d'animo. Un francese, malgrado sia l'uomo più ricco del mondo, si lamenta in continuazione. Il poverissimo greco non si lamenta mai. E non si mette neanche a ballare la giga per ottenere una mancia quando rende un servizio. La Francia è forse il paese dove il senso di giustizia è più sviluppato. Tuttavia, come ha fatto notare Shakespeare, e, molto prima di lui, Cristo, Buddha e Lao Tse, la carità viene prima della giustizia. E io sento che, malgrado le orribili ingiustizie del paese, la carità, la generosità, la gentilezza, la simpatia, la spontaneità sono virtù che la maggior parte dei greci possiede al massimo grado.

La carità americana è di un altro genere – è inconsapevole – il gesto di un uomo che ha le tasche piene di soldi e che non si prende la briga di misurare il grado di giustizia o di contare i suoi sous. In Francia la carità è inesistente. La carità non si adatta a uno schema logico. E' un atto gratuit, come quello degli assassini pseudo-dostojevskiani dei romanzi cerebrali di André Gide. Ora, signor Elliadi, non posso dire che il suo libro mi abbia colpito. Ma, anche se non riesco ad avere fiducia nel suo genio poetico, saluto il gesto amichevole compiuto nei miei confronti il giorno in cui sono arrivato a Candia. Sto facendone una registrazione imperitura, destinata al museo delle azioni umane, un testo leggibile per sempre. E mille grazie per il riso bollito cucinato per curare la mia dissenteria. Spero che venga presto il giorno in cui la città di Candia abbia un ristorante all'altezza della sua fama archeologica. I migliori auguri al suo amico sarto, presidente dell'Associazione commerciale dei sarti di Candia. Le ho detto che i miei nonni erano sarti, ma non ho menzionato il fatto che anche mio padre era sarto e che anch'io ho cominciato come sarto.

Alcune ore a Canea... La città vecchia è molto interessante. Un vero labirinto. Un'immagine di Venezia a brandelli. Ma quello che più mi è piaciuto è stato l'incontro casuale con un nano. Un nano di Goya. Sembra che ci fossero anche tre mostri in esposizione, ma li ho mancati. Mi sono accontentato di ascoltare della musica – un flauto orientale. Era una notte incantevole e il luogo era ben scelto. Dai dirupi a strapiombo sulla vecchia palude sono sceso a vedere che cosa stesse accadendo. C'era molta polvere – e fango. L'odore delle caldarroste e il nitrire dei piccoli cavalli greci. Più avanti ho scoperto un luogo spettacolare – un grande fossato attorno alle mura. E, mentre ascoltavo la radio dai folli altoparlanti, sono caduto preda di una fantasticheria sul mondo ignoto dell'Asia. Ho avuto la sensazione di essere nella terra degli Ittiti. Il vasto spazio, più vuoto del vuoto, mi ha dato un senso di nostalgia per l'Asia preistorica. Davanti ai miei occhi c'era un disco con le iscrizioni minoiche. Rivedevo le tavolette babilonesi mostratemi al British Museum. Ho pensato alla scrittura più bella e primitiva che avessi mai visto – la scrittura maya. Poi ai mirabili geroglifici egiziani sui quali ho ponderato per un'ora e più, al Louvre, mentre cercavo lo Zodiaco di Dendera incastonato nel soffitto.
 
Faccio una lunga interruzione a causa del signor Machrianos, un ingegnere che conosce tutte le città della Grecia. Parla un buon inglese. Perché non dovrebbe, visto che ha passato la giovinezza a Pittsburgh, al Carnegie Institute? E' un tecnico, uno del vasto esercito che lavora alla bonifica del suolo greco. Sa tutto dell'acqua, della malaria, delle acque di scolo, delle foreste, del letame, ma anche dei buoni hotel e dei buoni ristoranti. Mi parla di quei greci insensati tornati dall'America con i soldi, che aprono hotel moderni in zone remote e fanno tutto alla moda americana, anche se non ci sono clienti in vista. Dalla sua bocca ho una panoramica a volo d'uccello di quello che il governo cerca di fare – un compito erculeo. I suoi discorsi confermano le mie convinzioni sulla Grecia. Altri vent'anni e il paese sarà irriconoscibile. Si sta adattando ai tempi con un'alacrità quasi giapponese. Gli abitanti delle isole sono sempre adattabili. Sono i montanari a essere conservatori – come sarà messa la Grecia alla fine della guerra?
 
I politici prevedono l'appauvrissement dei paesi ricchi. La Grecia è già povera. E' in fondo alla scala. Penso di nuovo ai giapponesi. Non vedo ragioni per cui i greci non dovrebbero emularli. Se mai ci saranno venti o trenta milioni di greci nel mondo succederà qualcosa di fantastico. La loro curiosità è illimitata, la loro energia infinita. Potrebbe esserci una nuova guerra del Peloponneso, la Grecia potrebbe guadagnare il predominio e assumere l'egemonia dei Balcani. In ogni caso, il paese progredisce. Nulla può fermare la sua corsa impetuosa se non un terremoto.

Stavo dimenticando Canea, la città veneziana. Un altro popolo di marinai. Un popolo forte. Canea è molto più interessante di Corfù. Che labirinto di strade dall'aspetto malsano, che porte, che entrate! Nella parte nuova della città, ovvero il quartiere greco, si avverte una caratteristica locale, il bisogno di spazio. Le case sono costruite in modo disordinato, in direzione del mare e della montagna, ma con dei vuoti in mezzo. La luce filtra. I bambini giocano al sole. In piedi su una scala in mezzo alla strada c'è una donna grassa che pota un albero. Molto greco. Se non fosse per l'architettura potrebbe essere una città di pionieri americani. L'arte di costruire è quella dei nomadi che si sono appena installati. Non sono case – sono semplici rifugi, ripari, tetti messi dai corpi sopra alle anime. Verso Festo, nell'entroterra, le costruzioni sono più primitive. Qui siamo in Siberia, fra i calmucchi. Tutto ciò che viene dalla tradizione è stato dimenticato. I greci hanno scavato la roccia e vi si sono seppelliti, come gli indiani Pueblo del Nuovo Messico. Prevale l'istinto troglodita. Si è nella terra degli uragani, i tornadi, i nubifragi, le tempeste di sabbia, le ondate di caldo, i ghiacciai, le valanghe, le epidemie, i fantasmi, i demoni e altro ancora. Allora, l'uomo scava la terra.


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