Presentazione - henrymilleringrecia

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   “Mi trovo in quella che si può considerare una comoda stanzetta di un albergo moderno con tutti i comfort. Il letto è pulito e soffice, la doccia funziona perfettamente, la ciambella del gabinetto è stata sterilizzata… Sono depresso, depresso oltre ogni limite. Se dovessi occupare questa stanza per qualche tempo diventerei matto, o mi ucciderei. Lo spirito del posto, lo spirito degli uomini che ne hanno fatto l’orrenda città che è, filtra dalle pareti. C’è il delitto nell’aria. Si soffoca.” Siamo nel 1939 e l’orrenda città di cui parla Miller è New York, dove egli è appena tornato dalla Grecia, lasciata il giorno dopo Natale. Era partito da Parigi, dove aveva vissuto una decina d’anni, per Corfù, per andare a trovare l’amico Lawrence Durrell, che si era stabilito sull’isola con la moglie.  
 
   Idra, Spetses, Nauplia, Dafni, Micene, Epidauro... un taccuino raccoglie le idee e le impressioni che il viaggio gli suggerisce. L’unica linea conduttrice è quella dei suoi spostamenti. Le annotazioni, omaggio alla Grecia, alla sua cultura e ai suoi abitanti, a volte spontanee, a volte meditative, sono delle divagazioni e delle esplosioni di umore, più che delle descrizioni. A Iraklio, Miller si imbarca per Canea, sull’isola di Creta, dove visita Cnosso e Festo. Si imbeve delle atmosfere dei luoghi fuori del tempo e ne restituisce l’intensità e le vibrazioni. Sta disteso tutto il giorno al sole in silenzio, tenendo vuota la mente. Non ha letto Omero né Eschilo né Pindaro, non ha nozioni di storia e di arte greca, le teorie degli archeologi non lo interessano, ma di fronte alle bellezze della civiltà ellenica la sua fantasia si rasserena. Le cose che vede lo inducono a fare considerazioni. E, con il candore del neofita, egli fa rivivere la Grecia arcaica, insieme a quella di tutti i giorni. Ama le persone ingenue, si appropria di quelle che incontra casualmente e le vivifica nel racconto. Attraverso gli emigranti tornati dall’America critica la meccanizzazione del suo paese di origine, dove la modernità rivela il suo volto più nefasto. Si scaglia contro le macchine che omologano tutti gli individui e trova nel mondo ellenico una conferma del suo disprezzo per la civiltà che le ha create. “La più antica costruzione di Iraklio sopravviverà alla più moderna costruzione americana” dirà ne Il colosso di Marussi, il capolavoro di cui queste note contengono i semi.
 
   Le sue intuizioni sulla religione e sulla civiltà lo portano a considerare la Grecia come la terra delle origini, il luogo che contiene il vero significato della vita.  Ha la testa piena di esaltazioni dionisiache e pagane. “Qui gli dèi – dice - abitano il suolo, le rocce, gli alberi inondati di luce.”
 
   Affida queste note al poeta Ghiorgos Seferis, Premio Nobel per la poesia nel 1963, il quale a sua volta, nel 1971, poco prima di morire, lascia il manoscritto alla moglie, Maro Seferiades. Il testo, che non era probabilmente destinato a essere pubblicato, era finora inedito in Italia.


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