Tutto è leggendario, favoloso, incredibile, miracoloso… - henrymilleringrecia

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Nel 1939, quando la guerra era ormai nell’aria, Miller ha lasciato Parigi e il suo appartamento a Villa Seurat, nel quale aveva scritto alcuni dei suoi capolavori, ed è partito in nave per la Grecia. Era tanto tempo che non si concedeva una vacanza e, dietro suggerimento della sua amica americana Betty Ryan, che lo aveva sedotto con le sue descrizioni fedeli e affascinanti di questo paese, si è imbarcato a Marsiglia diretto ad Atene. Andava anche a incontrare il suo amico Lawrence Durrell, che viveva a Corfù. La prima impressione di essere ai confini di un mondo nuovo, che avrebbe potuto dare risposte a tante sue domande, l’ha avuta davanti all’isola di Zante, e al suo porto con la banchina deserta e la sua palma solitaria. Il tempo non esisteva più, c’era solo lui pronto a incontrare le persone e a vivere le cose che gli sarebbero capitate. Poi, mentre proseguiva il viaggio verso Atene e osservava dal ponte le isole misteriose che vedeva profilarsi all’orizzonte nella luce del giorno morente, aveva la sensazione di avere tutto ciò che un uomo può desiderare…  
 
La sera del suo arrivo ad Atene, mentre visitava il parco Zapio (Zappeion), è rimasto  affascinato dalla gente che incontrava, dalla loro semplicità, dalla forza e nobiltà con cui accettavano, con rassegnazione, le loro misere condizioni di vita. In quel momento ha cominciato a formarsi in lui la percezione del paese come di un regno posto sotto la protezione del Creatore. I suoi uomini di genio le hanno permesso di disporre di un patrimonio artistico ricco ed eterno, le sue vestigia testimoniano di un popolo che si era innalzato a un livello mai più raggiunto successivamente, anche se il retaggio del passato non era completamente perduto. Era ancora un paese a misura d’uomo.
 
Dei  greci stava imparando ad amare l’entusiasmo, la curiosità, la passione,la  contradditorietà, la confusione, il caos, la generosità… in una parola, amava le loro qualità umane. Aveva un grande rispetto per loro ed era interessato a scrivere una storia personale del paese. Non amava invece l’aspirazione al denaro, al potere, al possesso di un ‘posto al sole’ dei greci che volevano andare in America a farsi un gruzzolo e che dicevano che in Grecia non c’era vita, che non vi si trovavano le cose disponibili nei paesi progrediti. A differenza di questi individui, Miller non amava l’America, dove tutti anelavano ad avere più macchine, più soldi, più efficienza e più comodità. Secondo lui i greci americanizzati erano l’esempio dell’uomo smarrito. Erano stati prosciugati di tutto ciò che forma l’essere umano, proprio come gli abitanti degli Stati Uniti, che erano diventati vuoti, irrequieti e infelici, malgrado i lussi e i confort di cui disponevano.

A chi considerava la Grecia un paese senza importanza  perché non lo era dal punto di vista economico, lui dice che essa era importante per chi cercava di trovare se stesso e non c’era nessuno, più degli americani, che avesse bisogno di ciò che la Grecia aveva da offrire. Essa non era solo l’antitesi dell’America ma anche la soluzione dei mali dei suoi cittadini. Spiritualmente, era la madre delle nazioni, la sorgente della saggezza e dell’ispirazione ed era preoccupante pensare al giorno in cui i suoi abitanti avrebbero adottato la ‘bardatura’. Quel giorno, essi avrebbero cessato di essere greci.  
 
Da Atene è subito andato a Idra, a raggiungere il pittore Ghikas, da lui conosciuto a Parigi, dove questi aveva trascorso alcuni anni. Miller descrive l’isola come la creazione di una stirpe di artisti, con le bianche case collegate l’una all’altra come da un architetto invisibile. Gli sembrava di stare ammirando un quadro che cambiava e si trasforma a ogni passo, aveva l’impressione di essere su di una piattaforma girevole. Per Miller l’isola, somigliante a una roccia sporgente dal mare, era un simbolo di vita eterna. I colori bianco e azzurro delle case raccolte ad anfiteatro intorno al porto, il colore grigio dell’erica,  quello blu cobalto del cielo lo affascinavano…
 
Da Idra, con uno dei battelli decrepiti che i greci compravano come ferro vecchio e continuavano a far navigare per molti anni, infondendovi nuova vita  e affrontando con essi le onde alte e il vento forte, Miller è andato nell’isola di Spezzia, dove ha assistito a un tramonto ‘biblico’. L’isola, però, gli è apparsa scialba ed eterogenea, con un’atmosfera in parte impregnata di passato.
 
Da qui, con un altro battello malsicuro ha raggiunto Nauplia, dove c’erano una guarnigione militare, una fortezza, un palazzo, una cattedrale, qualche monumento bislacco e una moschea convertita in cinema. Non gli è piaciuta, perché non gli piacevano le fortezze, le chiese, i palazzi e i musei. L’aria era umida e gelida e, dal porto di Leonidio, egli intravedeva una gola che attraversava la spina dorsale delle montagne color verde scuro. Il pittoresco paese dall’aspetto francese era annidato nel porto e le case avevano una disposizione simile a una manciata di mangime per polli. In alto si vedeva il profilo della fortezza di Larissa. Il giorno dopo ha passeggiato a lungo sul molo. Sulla sponda opposta, a pochi chilometri dal golfo di Nauplia, c’era  Argo, uno dei luoghi più importanti della mitologia greca e il paesaggio gli faceva venire in mente l’illustrazione sulla copertina del suo libro di storia.
 
Ha raggiunto Micene in automotrice. Mentre si avvicinava alla città, ha visto le rovine di Tirinto, un altro  luogo sacro, che gli ha suggerito il pensiero che le civiltà possono nascere e morire, ma che i luoghi come questo resteranno intatti, radicati per  sempre nel paesaggio e nella storia. Micene ha risvegliato in lui dei ricordi dimenticati, forse scaturiti dalla memoria universale, forse dalle cose lette da bambino. Con l’amico Katsimbalis, il gigante che darà il titolo al libro Il colosso di Marussi, è andato a piedi verso la cerchia di colli, al di sopra dei quali roteavano alcuni uccelli e dove regnava una quiete sublime. Pensava ai corpi dei guerrieri, a quelli degli architetti e degli artisti disseminati in quel terreno.  Lì giacevano le vestigia di figure leggendarie, lì il mondo del pugnale e quello dell’arte convivevano. La progenie degli dèi che avevano camminato su quella terra aveva prodotto un tipo d’uomo artista, creatore di un’architettura ciclopica, ma anche ricca di ornamenti di una grazia delicata.

Miller e Katsimbalis hanno varcato la Porta dei Leoni nella solitudine più assoluta, camminando fra i lastroni di pietra che formavano un recinto circolare. Le proporzioni del palazzo erano piccole, ma le mura erano colossali. Lì la storia aveva compiuto un cerchio completo, era uscita dal limbo per ritornare nel limbo. In quel paesaggio arcaico lo scrittore vedeva muoversi a passi lenti un pastore con il suo gregge, “fra i corpi immobili dei morti” con cui sembrava parlare, vedeva i  tacchini legati con uno spago al pomolo delle porte, vedeva gli asini stracarichi di legna e di sacchi, i cani, i gatti, i bambini nudi...  
 
La tomba di Agamennone era magnifica nella sua nudità. Una volta dentro, Miller ha avuto l’impressione di essere caduto vittima di un incantesimo che lo ha liberato del suo passato e del suo io. Era diventato un nessuno spirituale, un nomade che aveva chiuso con la civiltà e con la progenie di anime colte. Si rendeva conto di quanto ciò fosse incomprensibile per un uomo civilizzato, ma per quel che lo riguardava egli desiderava soltanto lasciare dietro di sé il mondo delle cose per prendere il volo come puro spirito. Qui ha udito battere il grande cuore del mondo, e questo lo ha portato ad affermare che tutti i popoli della terra sono connessi. Per evitare che ci fossero una terza e persino una quarta guerra mondiale l’ordine del mondo in vigore fino ad allora avrebbe dovuto cambiare, fino a includere tutti gli uomini del pianeta. Tutti avrebbero dovuto comportarsi in modo responsabile come membri della terra, come cittadini del mondo. In quella tomba, lo scrittore ha sentito di esserlo diventato e in quel momento ha deciso di dedicare il resto della sua vita al recupero della divinità dell’uomo.
 
Miller si è poi recato a Sparta, trovandola “miseramente attraente”, con un’aria un po’ volgare e aggressiva. Il forte profumo di aranci nell’aria, però, era piacevole. Nei dintorni c’era il villaggio bizantino di Mistrà, c’era la valle dell’Eurota, costellata di massi, c’era la catena del Taigeto...   
Per molti anni Miller aveva sognato di visitare Cnosso, sull'isola di Creta, sede dell’antico regno di Minosse, per osservare gli affreschi sbiaditi nei vecchi palazzi, per camminare dove gli eroi del passato avevano camminato . Il suo amico Seferiadis aveva deciso che avrebbero raggiunto l’isola in aereo e Miller, che non aveva mai volato prima di allora,  non ha affatto amato l’esperienza. Ha trovato il viaggio noiosissimo e senza sugo e ha scritto che l’uomo è fatto per camminare sulla terra, per navigare sui mari, ma non per volare. La conquista dell’aria è riservata a una fase successiva della sua evoluzione, quando all’uomo spunteranno le ali.
 
Il piccolo aereo su cui viaggiavano è atterrato a Heraklion, la cui strada principale, secondo lo scrittore, sembrava il set di un film occidentale di terz’ordine, piena com’era di  botteghe all’aperto e di bancarelle con oggetti artigianali. Era un misero paesotto con i segni della dominazione turca, eterogeneo e confuso, “odoroso di pellami grezzi, di semi di cumino, di catrame e di frutti subtropicali”. Lo scrittore e il suo amico hanno vagato per le stradine con nelle orecchie il suono sempre uguale di un disco rotto che usciva da un grammofono a tromba posato su una sedia. Sulla porta dei loro negozi, i macellai chiacchieravano, avvolti in grembiuli insanguinati.
 
L’indomani  lo scrittore ha preso la corriera per Cnosso e si è messo in cammino in direzione delle rovine, verso cui si sentiva calamitato. Il cielo era nuvoloso, piovigginava e in fondo a una forra si vedeva un padiglione dai colori accesi. Era il palazzo del re Minosse, che conservava le tracce dello splendore e dell’opulenza di un tempo, rifletteva la serenità in cui viveva l’uomo a quel tempo, non afflitto da pensieri di vita ultraterrena, non soffocato da devozione per gli spiriti ancestrali. Era un mondo incantato di cui si era perso il segreto a causa dell’arrivo della tecnologia, del telefono, della radio, dell’automobile, del trattore, tutti oggetti che hanno distorto il significato della convivenza e della comunicazione, che hanno alterato il ritmo quotidiano, che hanno reso gli individui inquieti, insoddisfatti e invidiosi. L’elettricità, gli impianti idraulici, le scuole, le leggi non sono stati delle conquiste della civiltà, come li consideriamo noi, ma delle cose mortifere. L’uomo più felice, invece, è quello che ha meno bisogni, perché non è il denaro che migliora la vita e il carattere delle persone.
 
Miller amava stendersi al sole, sull’erba dura o sulla sabbia in riva al mare, e lasciarsi andare alla sensazione di fluttuare nell’aria, di  “bagnarsi nel cielo”. Sentiva che la sua esperienza in questo paese sarebbe culminata in un momento di beatitudine assoluta, che la Grecia era l’unico paese in grado di soddisfare i suoi bisogni interiori, l’unico in grado di portarlo alla meta finale della liberazione. Il senso di eternità che lo colmava di continuo lo rendeva felice. Vi aveva conosciuto degli uomini aperti, schietti, naturali, spontanei, affettuosi, proprio come dovrebbero essere tutti gli uomini.
 
Da Cnosso Miller si è diretto, in auto, verso la parte meridionale dell’isola di Creta. Voleva visitare i resti dell’antica città di Festo, il cui palazzo rappresentava uno dei siti più importanti della civiltà minoica. Da lassù ha contemplato la piana di Messarà, cinta da una maestosa catena di monti, sopra ai quali si libravano le aquile. Il panorama era mutevole ed evanescente.
 
È stato poi a Canea, nel nord ovest dell’isola di Creta e ha trovato interessante la parte vecchia della città, dall’aspetto di una roccaforte veneziana. La parte greca, più moderna, invece, era sparpagliata ed eclettica. Questo perché l’uomo greco, lasciato a se stesso e alle proprie risorse, si limita a costruirsi una capanna rustica, ad avere alcune pecore, un campo da coltivare accanto a un corso d’acqua, un ciuffo di ulivi e un flauto per svagarsi. Terminata la visita, lo scrittore è tornato ad Atene a bordo di un battello sgangherato, che somigliava a un’arca di Noè, con bambini che strillavano, donne che cucinavano, uomini che si lavavano in una tinozza, animali…
 
A Epidauro lo scrittore ha fatto l’esperienza della pace, la pace del cuore, non derivante dal possesso di beni materiali, ma dal distacco dalle abitudini e dalle ideologie. Prima di arrivare qui non conosceva la gioia data dall’abbandono dei sentimenti di ira, di odio, di orgoglio e di arroganza.
 
Una volta tornato ad Atene passava le notti a passeggiare sotto le stelle autunnali, ad ascoltare i suoni provenienti dalle case, ad osservarne gli interni, ad ammirare la semplicità delle abitudini di vita dei residenti… Mentre era in attesa della nave per rientrare in America, ha deciso di andare a Delfi con i suoi amici Katsimbalis e Ghikas. Nel corso del viaggio, compiuto con una Packard, si è reso conto che sogno e realtà si fondevano in una coppa di pura luce. Nel soffice silenzio, in mezzo alle colline ondulate, è apparsa Delfi, sublime e maestosa. Dal teatro sull’altura hanno contemplato le rovine e le colonne disseminate intorno. Hanno bevuto alla fonte Castalia, poi hanno raggiunto lo stadio, costruito sotto il crinale del monte, dove un tempo correvano i destrieri con i cocchi guidati dagli aurighi.
 
La parte nuova di Corinto, la sua meta successiva, era poco attraente, dice lo scrittore. Le case erano simili a scatole, gli stradoni e i parchi vuoti erano brutti. Nella parte vecchia si stagliava il profilo ‘morbido e benigno’ dell’Acrocorinto e mentre, insieme a Katsimbalis, era alla ricerca di un ristorante per la cena, ha udito le note selvagge di una musica nostalgica provenire da un flauto. È una delle esperienze che Miller ha annotato in un taccuino, insieme alle idee e alle impressioni che il viaggio gli ha suggerito. Alcune di esse riguardavano la cultura e gli abitanti, altre erano delle riflessioni e delle divagazioni che restituivano le sensazioni e le vibrazioni trasmessegli dai luoghi. L’unica linea conduttrice era quella dei suoi spostamenti nella terra degli dei, che abitavano il suolo, le rocce e gli alberi inondati di luce. Ha confessato di non aver mai letto Omero né i drammaturghi antichi, di non essere interessato alle teorie degli archeologi e di non conoscere la storia né l’arte. Ma forse proprio per questo egli è stato in grado di far rivivere, con la spontaneità del neofita, la Grecia arcaica, quella eterna, che conteneva il vero significato della vita…
 

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